Tenerezza, l’intensità dell’anima

Tenerezza, l’intensità dell’anima

Tenerezza, l’intensita dell’anima

Pensando alla tenerezza mi viene in mente il “Discorso alla Luna” di Giovanni XXIII, il papa buono. Questo è uno dei passaggi più suggestivi e toccanti che segnano anche i cuori di pietra.

“Tornando a casa, troverete i bambini; date una carezza ai vostri bambini e dite: questa è la carezza del Papa.
Troverete qualche lacrima da asciugare. Fate qualcosa, dite una parola buona. Il Papa è con noi specialmente nelle ore della tristezza e dell’amarezza”.
“Si direbbe – egli disse – che persino la luna si è affrettata, stasera – osservatela in alto!Guardate questo spettacolo”.

Parlare di tenerezza significa prendere l’ amore, ascoltare il tempo che passa, avere curiosità verso l’altro, quella leggerezza profonda che ci permette di intercettare, fra le righe, il senso più fecondo e creativo della nostra finitezza.Parlare di tenerezza tocca molte corde sensibili, smuove affetti ancestrali, evoca l’intensità della vita del corpo e anche dell’anima.

Sfida i predatori e i prepotenti, pone domande scomode e offre nuove istruzioni, accende piccole, miracolose luci nel buio, annunciando una rivoluzione gioiosa ( passim Tenerezza: rivoluzione del potere gentile di Isabella Guanzini ).

La tenerezza ci incoraggia

La tenerezza incoraggia il nostro corpo a formarsi, a nutrirsi, a riconoscersi. È una tensione verso l’amore, al diffondersi dell’altro in noi, non imponendo narcisisticamente se stessi, ma,come dice Lacan, è donare quello che non si ha a qualcuno che non lo vuole.

Ecco allora che la tenerezza muove il mondo, perché devo cercare quello che non ho, ma non per arricchire me stesso, ma per donarlo all’altro, che non ha quella cosa e non la pretende, ma se la fa propria, si rinnova, l’apprende, riscontra lo sforzo della tensione, il rispetto della sua alterità.

La tenerezza è letizia, perché, come diceva Spinoza, in primo luogo si cerca la bellezza del mondo, per risvegliarci dalla stanchezza della vita, dal letargo in cui siamo piombati, nella chiara consapevolezza che non può essere solo e sempre la violenza, anche con le parole e la durezza del gesto, a costituire la cifra delle nostre relazioni.

Tenerezza è parlare per convincere, persuadere, curare il sentire dell’altro, badare alle sue ragioni, dare importanza considerevole alle sue inquietudini, per strapparlo alla tristezza e rassegnazione.

Tenerezza è anche perdono, come quando Gesù, lascia che la Maddalena lavi i suoi piedi con i fiotti delle sue lacrime amare e glieli asciughi con i lunghi capelli e li unga con olio di nardo, assai prezioso, che profuma la casa del fariseo esterrefatto.

Maddalena, quando lava i piedi del Cristo, si rannicchia a terra, in una posizione che esprime molta devozione e molta umiltà. Ma è anche una posizione fetale, come di un corpo in gestazione, di una nuova vita che sta quasi per nascere. “Donna, dice Gesù, sei perdonata”.
E la Maddalena ritornò al Sepolcro con quell’olio per ungere il corpo di Gesù, ma vide il Risorto.

La tenerezza è un incontro gentile. Chi non ha veduto accendersi in un occhio limpido il fulgore della prima tenerezza, non sa la più alta delle felicità umane. Dopo, nessun altro attimo di gioia eguaglierà quell’attimo, sostiene D’Annunzio.

Tenerezza è un giorno di festa, un gioco.

“Ecco il Sol che ritorna, ecco sorride
Per li poggi e le ville. Apre i balconi,
Apre terrazzi e logge la famiglia:
E, dalla via corrente, odi lontano
Tintinnio di sonagli; il carro stride
Del passegger che il suo cammin ripiglia” ( Leopardi, la quiete dopo la tempesta ).

È nei passaggi della tenerezza che il mondo si fa effettivamente vivibile e finalmente leggibile. È nella grazia sottile di un gesto che sfiora l’orrore che si aprono mondi di significati destinati a durare e a tenerci in vita.

La tenerezza si attende, si muove, fa comprendere che è una tensione, un tendere, uno sforzo, come gli occhi gioiosi di un bimbo che apprende la sorgiva fonte dei seni materni e cerca la sua genitrice solo con l’accenno di un sorriso o di una vocina flebile che chiede e dà amore: un miracolo simbiotico irripetibile ed irreversibile che non conosce e sopporta distonie, dissociazioni, perché lì si compie l’armonia del mondo.

La mamma è tenerezza sempre, di per se’, per tutta la vita, non muore mai, anche quando ci lasciano ci guardano da lassù.

La tenerezza è la felicità di tuffarsi nelle acque estive del mare, un abbandonarsi ai suoi flutti, dove il corpo e la mente collimano nel piacere, e la libertà di essere, il piacere di vivere, l’euforia di vedere, fanno tutt’uno con l’orizzonte, dove il cielo e il mare si sfiorano, mentre il sole trionfa sovrano ma senza bruciare. Là, in quel preciso istante, la libertà la vedi con gli occhi, la felicità la bevi con le mani, la leggerezza la tocchi col corpo. Ti perdi nel tutto spumeggiante. Quella felicità di perdersi durerà pochi istanti, poi ti resterà sul corpo e nella mente solo un velo di benessere. Quella è l’impronta che lascia la felicità. Ma per custodirla meglio è consigliato l’oblio, è il suo guscio naturale, dice Veneziani.

Vi era tanta tenerezza nella vista delle barche lambite dalla luce dell’aurora: il pescatore curvo tirava la rete piena di pesci e baciava il munifico mare, dopo aver spento la lanterna che gli aveva fatto compagnia durante la notte.

La tenerezza è la grandezza dell’amore

La tenerezza è la consapevolezza di offrire una coltre all’incompiutezza della vita, alla sua fragilità e precarietà, ove tende questo “vagar mio breve”.
È raddrizzare con uno sforzo, avvertire che sale nella coscienza il “ricominciamento”, sentito nei recessi dell’anima: la nostra strada non può essere lastricata solo da abbandoni, tradimenti, speranze disilluse, ferite lancinanti, rancori, promesse non mantenute. È la lezione della meraviglia del mondo, quando uscimmo a rimirar le stelle.
È la dolce malinconia di Rilke: “Dolce e soave era il suo sorriso come un gioiello su avorio antico, come nostalgia della casa remota, come lo sfavillìo del Natale, quale turchese tutta di perle fasciata, quale raggio di luna su un libro amato”.
È tenerezza lasciar dormire e non svegliare la tua donna o il tuo bimbo, non si può mai odiare chi dorme con i sogni, diceva Elias Canetti.
Perché la tenerezza è la grandezza dell’amore: in essa tutti i diritti sono sospesi.

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Avvocato Biagio Riccio

L’avvocato Biagio Riccio è specializzato in diritto societario, diritto fallimentare, diritto bancario, diritto penale bancario e fallimentare.

Si è laureato con lode all’Università Federico II di Napoli ed ha assunto il titolo di dottore procuratore nel 1993 e quello di avvocato nel 1995; inoltre è patrocinante in Cassazione dal 2008.

È stato ideatore e promotore di due disegni legge sulla necessità di ottenere una diversa configurazione del potere punitivo anche nei confronti delle Banche, in caso di erronea segnalazione alla Centrale Rischi e sia sul potere da riconoscere al debitore, in caso di vendita di crediti deteriorati: in proposito, ha tenuto significative conferenze sia alla Camera dei Deputati che al Senato della Repubblica.

Ha ottenuto, nel 2014, la libera docenza di diritto bancario all’Università Telematica Unicusano di Roma.

È fondatore della rivista “Favor Debitoris”.

Ha scritto il libro “Fugaci ritratti”, con la casa editrice “Rubettino”, con la prefazione del prof. Vittorio Sgarbi.

“Biglietti d’amore” è il sito dove cura tutti gli aspetti legati alla cultura ed alla letteratura e molti dei contributi presenti sono stati poi inclusi in altre opere letterarie.

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